Buoni formaggi, ma pochi. L’estate 2022, calda e secca, ha fatto calare drammaticamente la produzione di latte sugli alpeggi sferzati dal sole, dove l’erba è ingiallita prima del tempo. In Alta Valtellina sono state raggiunte punte di 27 gradi nei pascoli oltre i 2000 metri: un caldo con il sole a picco che ha portato a un ridimensionamento considerevole delle rese, dal 20 al 30 per cento in meno per ogni mucca munta, il che si riflette sul numero di forme prodotte e messe a stagionare in caseificio. “Non solo: moltissimi allevatori sono stati costretti a scaricare prima gli alpeggi, ovvero a tornare a valle con mandrie e greggi, perchè non c’è più erba” racconta da Arona Giovanni Guffanti Fiori, che con il padre Carlo è uno tra i più affermati affinatori di formaggi. “In Ossola e nel Cuneese, al confine con la Francia, sono scesi già in diversi. Un ritorno a valle che espone gli alpeggiatori a un altro problema, quello di alimentare gli animali che non possono più contare sull’erba dei pascoli montani. È una catena: la siccità ha dimezzato la produzione di fieno. Di conseguenza, il prezzo è schizzato a circa 30 euro al quintale, una cifra mai vista”.
La fine anticipata della monticazione provoca un ulteriore calo quantitativo dei formaggi prodotti e aggrava le perdite per gli allevatori: “Facciamo due conti: anticipare anche solo di dieci giorni la discesa dall’alpe comporta, per un piccolo allevatore, la perdita di circa otto forme al giorno, che sommate diventano ottanta. Moltiplicato per il numero degli alpeggiatori che sono già scesi, si raggiungono numeri importanti”.
Raffaele Castellazzi, giovane allevatore della provincia di Como, ha dovuto addirittura farsi consegnare il fieno all’Alpe di Ossuccio tra Lario e Ceresio: “E non è stato facile trovarlo, di fatto è razionato. Ma non c’erano alternative, l’erba secca era ormai divenuta inservibile”.
In Valdidentro, sulla via per Livigno, Francesco Gurini assicura di “non aver mai visto un’estate simile in 35 anni di transumanza”. E la montagna ha dovuto fronteggiare, con responsabilità, la sete della pianura, assicurando il rilascio d’acqua dagli invasi per dissetare una pianura ancor più arsa, dove i cereali morivano su lande secche.
Insomma, i cambiamenti climatici colpiscono dove nessuno se l’aspettava e mettono a rischio una tradizione casearia che è l’anima stessa delle nostre montagne colpendo, come la caduta delle tessere di un domino, tutte le produzioni agricole delle valli alpine, dal mais, alla frutta, alla vite.
La paura è un possibile abbandono dell’attività da parte di tanti giovani alpeggiatori: sono loro, oggi, ad assicurare un futuro alla biodiversità casearia alpina, producendo formaggi secondo ricette che resistono da secoli e millenni. In quel caso, salterebbero intere filiere, ma il danno sarebbe anche dal punto di vista storico e culturale, con il caro prezzo di una perdita identitaria irreparabile.
Lorenzo Borgo, altro giovane affinatore, sta iniziando a ritirare i formaggi in montagna per portarli nella cantina di maturazione nel cuore del Monferrato astigiano: “Già a fine luglio la situazione era desolante, erba gialla ovunque. Il latte è diminuito molto, qualche produttore non riesce a fare quasi più formaggio e ha dovuto a limitare la produzione al solo burro. La grande paura è per il ritorno a valle, in uno scenario dove i costi di produzione hanno superato ogni margine di sopportabilità economica per la tenuta delle stalle”.
Unica nota positiva, la qualità: “I formaggi sembrano buonissimi - racconta Lorenzo - Le prime forme prodotte a giugno hanno già preso un bel colore giallo intenso e un gusto sostanzioso, anche su questo aspetto la stagione sembra essersi portata avanti”. Giovanni Guffanti Fiori conferma: “I formaggi meglio riusciti? Tra gli assaggi fatti finora, il Grasso d’Alpe delle vallate ossolane. Quest’anno sembra venuto benissimo e si presterà a maturazioni importanti”.