Dobbiamo ringraziare le provocazioni di Flavio Briatore e le reazioni stizzite dei pizzaioli napoletani. Sì, perché - sia pure in maniera scomposta - per la prima volta dopo lunga tregua si è riaccesa la fiamma del dubbio e del confronto tra chi lavora nella ristorazione e chi la segue con passione. Ma avete visto mai un ambiente ben determinato, un gruppo, una compagnia, in cui non si parli mai male di nessuno? Prendete il teatro, il cinema, la televisione, i giornali, un qualsiasi angolo, intrapresa o ridotta, nei quali si produca o si tenti di produrre un’idea originale, una pièce, un programma da sottoporre all’esame del pubblico, di massa o di nicchia.
State pur certi che prima o poi qualcuno si farà avanti in maniera più o meno educata per esprimere dubbi, perplessità, riserve. Ovunque, tranne che nel campo che ci sta a cuore qui: la critica gastronomica. Intendiamoci, di quando in quando si leva qualche voce di dissenso, ma subito interviene lo sdegnato di turno a rintuzzare, minimizzare, invitare alla marcia indietro. Non disturbiamo il manovratore, please.
I guru, i nostri Maestri tacciono. Anzi, anni fa, con tanti capelli e poca pancia, rintuzzavano i nostri ormonali riflessi e sdegni, spiegandoci che no, non stava bene, e che il danno maggiore che potessimo provocare ai cuochi incapaci era la condanna all’oblio. L’assenza di qualsiasi riserva o notazione scettica ha due riflessi: abituati a camminare su una strada lastricata di rose e fiori, i cuochi nelle rare occasioni in cui si sentono - sia pure lontanamente - messi in discussione reagiscono con fastidio, anziché far tesoro delle osservazioni con fair play; la seconda conseguenza, ovvero la mancanza di una scuola di pensiero libero – aggravata dalla povertà del mercato – è il dilagare dell’iperbole dell’iperbole. Risultato: per l’ultima generazione di aspiranti o sedicenti gastronomi allevati a pranzi e cene "riservati alla stampa" l’apertura di un piccolo punto di ristoro sperduto ha da essere celebrata con una retorica e un’enfasi che confinano con la complicità.
Questa non è una chiamata al giustizialismo, ma il tentativo di gettare una pietra nella palude di un’ortodossia rassicurante, tale da far ascendere le incazzature dell’adorabile Vittorio Sgarbi all’Olimpo della libertà intellettuale. Per fortuna è arrivato Flavio Briatore, re del marketing, invidiato e detestato amante del lusso, della bella vita e delle belle donne, instancabile protagonista del glamour – de’ noantri e di una certa Costa Azzurra – e rampante imprenditore della ristorazione. Rispettabile? I pizzaioli insorgeranno contro cotanto aggettivo, eppure dovrebbero fare i conti con la catena di Crazy Pizza e con il successo che sta ottenendo, in Italia e all’estero.
C’è un equivoco di fondo: Flavio, l’amico del cuore del Berlusca, gioca un altro campionato. Quella che vende nei suoi locali non è pizza, è un disco di pasta senza lievito. Lui li provoca, e i pizzaioli abboccano: li sfotte dicendo che non è possibile vendere una pizza a 4/5 euro fatta veramente con ingredienti di qualità; e loro insorgono alla maniera di Caterina Caselli: “Non ha i titoli per giudicarci”.
Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale campano, fa l’offeso e la butta in caciara: “Briatore non sa di cosa parla. La vera pizza riconosciuta da Unesco e da UE con marchio STG è un piatto povero non per cafoni arricchit.”. Sarà pure una tempesta estiva che il placido golfo di Napoli assorbirà rapidamente, ma almeno qualcuno nel settore discute, piglia cappello e litiga. Un confronto che mi piacerebbe animasse anche quello che un tempo veniva considerato il rutilante mondo dell’enogastronomia, e che invece naviga sotto costa schivando ogni possibile abbordaggio. Tranne rarissime eccezioni, la crisi, ahinoi, sembra aver dato il colpo di grazia alle già ridotte discussioni sulla Cucina Patria, e le sue magnifiche sorti e progressive, e il conformismo regna sovrano. Todos Caballeros: aridatece la stroncatura!