È un debutto che suona come ritorno a Nord Italia quello di Pino Cuttaia, chef del due stelle Michelin ‘La Madia’ di Licata che approda all’ombra della Madonnina con il suo Uovo di Seppia Milano. Ritorna al settentrione dopo essere diventato grande nella sua Sicilia, tanti anni e una lunga strada costellata di successo da quando a Torino iniziò la formazione in cucina che lo ha portato a definire la cucina della memoria e diventare custode dei gesti, affinché i sapori siano tasselli di ricordi che si proiettano nei piatti. Un bistrot con lo stesso nome del suo negozio-laboratorio a Licata, una continuità di visione che arriva a completare gli spazi di Ariosto Social Club, poliedrico spazio nell’omonima via milanese che unisce appartamenti di lusso per affitti di brevi periodi, spazi benessere e una boutique. Dalla prima colazione alla cena, ogni momento della giornata sarà buono per gustare la cucina in cui lo chef riesce a reinventare ricordi: “Costruirò un’alchimia fra la mia Sicilia e il Nord Italia, alcune ricette avranno ispirazioni, tecniche o ingredienti del Settentrione, come il risotto allo zafferano con ragù di triglia e finocchietto che, alla fine, non è altro che un’arancina scomposta” racconta lo chef Cuttaia.
Scegliere Licata per Pino Cuttaia è stata una scelta d’amore per Loredana, per la famiglia e per la terra natale. Scelta coraggiosa e densa di significato che ha regalato allo chef e alla sua cucina un profondo senso di appartenenza e una costante voglia di confrontarsi. Sacrifici, sogni e progetti realizzati, ma altri ancora da portare a termine.

Quando e come hai capito che la tua vita sarebbe stata in cucina?
"Lo capii in età un po’ matura, dopo il militare a 23 anni. Avevo interrotto il lavoro in fabbrica alla Olivetti e tagliando una cipolla sentii la libertà. Ho avuto un senso quasi di vocazione. Per quanto possa essere fastidiosa da tagliare, mi sentii libero di tagliarla come volevo. Fa lacrimare gli occhi, come i dolori, però se la cucini sviluppa la sua dolcezza, ed è questo che il cuoco riesce a tirare fuori. Quando una persona conquista la libertà nel proprio lavoro, pensa che sia il lavoro più bello del mondo. Un po’ metaforico, è una conquista che può essere dolorosa e far piangere ma dopo ha un sapore dolcissimo".
Siciliano di nascita e trapianto in Piemonte da piccolo per necessità familiari, Cuttaia ha fatto un viaggio di andata e di ritorno verso casa. Due modi di vivere, due mondi e due lavori: cosa hai imparato da queste realtà così diverse?
"In Piemonte ho imparato il rigore, non perché la Sicilia non lo abbia ma vive un altro tempo. Mi è servito per una maggiore disciplina che ha portato ai risultati ottenuti nel lavoro. Da lì ho portato questo oltre al mestiere. Dalla Sicilia la memoria e il rapporto con l’ingrediente, la conoscenza di un territorio: la tradizione, il costume, la cultura del luogo che già conoscevo e mi è stato facile interpretare. In Piemonte avrei potuto essere une esecutivo, non un interprete".
Anni di gavetta, una formazione da autodidatta e un continuo studio che non si esaurisce. Come hai imparato il mestiere?
"Prima in un ristorante pizzeria, ma quando ho capito che dietro la cucina c’era una scuola di pensiero avevo già 22 o 23 anni. Non ho avuto la fortuna di lavorare, come altri colleghi, da grandi firme tranne a Il Sorriso che poi diventò 3 stelle Michelin. Essendo autodidatta senza un percorso formativo, ero già grande e pensavo di non essere all’altezza, mi mettevo sempre un po’ in disparte. Cercavo lavoro e mi proponevo come aiutante o lavapiatti, poi magari potevo essere il più bravo lì dentro ma senza un grande curriculum non potevo espormi. Mi sono sempre difeso invece che espormi, questo mi ha permesso di entrare in alcune cucine dove magari c’era poca tecnica ma grande calore. Molte conduzioni familiari, forse perché l’idea di una brigata mi dava un senso di scavalcare qualcun altro o di instaurare una competizione che non ho mai cercato nella vita. Se volevo fare di più del solito, come ho sempre fatto, una brigata non me lo avrebbe permesso perché si inizia e si stacca tutti insieme".

Da autodidatta a chef due stelle Michelin, anni di duro lavoro per non smettere mai di imparare. Quali sono le differenze con il passato per chi arriva in cucina?
"Oggi è cambiato l’approccio, è più codificato: una volta in brigata serviva tanto tempo per imparare, oggi con la codificazione già tempo due mesi sei responsabile di un reparto. Poi ovviamente l’esperienza la vivi sul campo, ai fuochi. Una volta dovevi soffrire un po’ di più prima che qualcuno ti desse un ruolo. Con la formazione c’è un’apertura mentale diversa. Quando un ragazzo fa il cuoco è già culturalmente più formato perché la scuola già ti imposta. Oggi la maionese si fa anche in maniera diversa, prima solo con la frusta a mano; non c’erano detergenti così potenti e le padelle bisognava sgrassarle a mano. Una serie di situazioni che abbiamo avuto la fortuna di vivere, come artigianalità. Come le cucine super tecnologiche di oggi dove non c’è più il fuoco, il bruciatore e le stufe sempre accese e dove il cuoco diventava a volta sterile per tutto quel calore vicino al bacino: oggi c’è una qualità, una tecnologia e una vita in cucina che prima non c’era".
Tutta questa tecnologia ha tolto valore al gesto artigianale?
"No, assolutamente no, però ti fa stare più comodo. Come una volta che si viaggiava in treno senza aria condizionata e oggi c’è anche la business: viaggi sulla stessa distanza, ma in maniera più comoda".
Un ingrediente di cui non potresti fare a meno? E lo strumento di cucina a cui non vorresti rinunciare?
"Un ingrediente di cui non potrei fare a meno è la memoria. Ma anche i basilari come aglio e cipolla, per me sono come note musicali: si parte da lì per formulare accordi e armonia, i sapori. In cucina non potrei fare a meno del carbone, simbolo di quella parte arcaica di cui sono sempre affascinato perché sta lì con il profumo della nostra storia. Il primo grasso che cade sulla carbonella ardente tira fuori un profumo che diventa un balsamico della memoria".
Presente come ingrediente metafisico che nei piatti si traduce in pensiero reso concreto da ingredienti e lavorazioni, nonché da evocazioni,la memoria è una zavorra o un modo per restare nel presente e proiettarsi verso il futuro?
"È una zavorra se non ti confronti, ma nel momento in cui lo fai con il contemporaneo ne trai energia: viaggi e torni per avere occhi nuovi con cui guardare il paesaggio e i tuoi ingredienti in modo diverso. Usando magari gli stessi ma con gesti diversi, l’innovazione è nel recupero del gesto. Immaginiamo una triglia: vive nel Mediterraneo ma ogni paese la usa a modo suo, questa è la bellezza. Essere ancorati alla tradizione può essere un limite finché non recuperi, arricchendoti, gesti di altri posti o paesi facendoli tuoi. Pensiamo anche alla mela del Trentino, in quanti modi è stata trasformata e cucinata? O il grano, è il gesto a farlo diventare altro: pasta, pani, pizza, bulghur. È solo attraverso il confronto che si cresce: la memoria è un trampolino per proiettarsi verso il futuro. Sta al cuoco contemporaneo riuscire a rendere eleganti i gesti legati alla memoria. Rimane anche in chi arriva da lontano, un turista che riconosce un ingrediente e lega il gesto usato a un sapore siciliano, anche questa è memoria".

Quanto e come è cambiata la ristorazione in Sicilia durante questi anni di lavoro?
"La Sicilia della ristorazione è cambiata molto, quando sono arrivato significava trasgredire le regole domestiche, un po’ in tutta italia. La cucina siciliana era legata alla globalizzazione e solo nella grigliata mista al cliente veniva il dubbio se il gambero rosso era di Licata o di Mazara, aver fatto 100 km significava che non era fresco quando magari aveva mangiato ingredienti che avevano fatto il giro del mondo. C’era mancanza di cultura che era ancora dentro le case e fuori si cercava quello che non c’era in casa, scimmiottando altri paesi e culture. Il territorio era ingrediente di casa. Fui uno dei primi a usare il merluzzo, si usava in casa per bambini, malati e anziani: lo affumicai con la pinna. Se un cuoco valorizza un prodotto lo fa diventare più nobile agli occhi del mercato. Non c’era il giusto rispetto per la materia prima, oggi c’è una maggiore conoscenza del prodotto. Oggi si vuole nutrire non solo il corpo ma anche la parte emotiva, sensoriale".
Dall’apertura come è cambiato il tuo modo di cucinare?
"Sta cambiando il modo di pensare alla ristorazione, oggi si ha voglia di condividere. Ancora una volta penso che il cuoco contemporaneo sia la mamma che non ha più ruolo domestico e, a maggior ragione, ha responsabilità di portare i pasti a tavola. Oggi il cuoco deve spolverare i ricettari smussandoli e rendendoli contemporanei, ma partendo dalla tradizione. Le tradizioni dobbiamo rispolverarle e farle vivere come esperienze ma allo stesso tempo fare in modo che non diventino folcloristiche. Tante volte penso a un pesce alla griglia portato a tavola intero che lo sporzionino i clienti. Si deve arrivare lì come ristorazione, il futuro sarà il prodotto, meno cuochi e più produttori. Preferisco meno manipolazione e più manifattura perché questa è la figura del cuoco e la manipolazione del cliente a tavola che si sporca anche un po’ le mani".
Quale è il senso di rieditare i piatti storici di un menu?
"Quello di cui mi sto nutrendo è il pensiero di come interpretare i piatti mantenendo tutti i costi dell’azienda. Spesso dico che se un quadro vale un milione di euro non è perché ci hanno messo un milione di colori, è l’emozione il suo valore. Quando un’aggiunta in un piatto evoca qualcosa da cui scaturisce l’emozione non bisogna guardare quanto cosa quel pezzo di ingrediente, c’è studio e ricerca per averlo scelto e messo lì. C’è il tempo dietro, elemento che ha grande valore. Immaginiamo un cuoco come un cantautore, i piatti come canzoni: quando ti piace hai piacere anche a riascoltarla, Anche la cucina che è fatta di interpretazioni; il problema su alcuni piatti non me lo pongo, è come una canzone che ha voglia di essere riascoltata. È facile che cambi la veste ma non il prodotto, cambia la forma del contenitore ma non il contenuto, gli dai una veste nuova. Ci sono dei piatti che non puoi superare perché sono arrivati nella loro completezza cui non si riesce ad aggiungere o togliere nulla, la sola cosa che puoi è variare la stoviglia. Cambi la cornice perché il contenuto è ancora contemporaneo".
Guide e clienti, due facce della stessa medaglia. Che valore hanno i premi della critica gastronomia e i riconoscimenti dei clienti?
"Sotto il profilo delle guide non mi posso lamentare e ho forte la voglia non sentirmi disagio verso le persone normali, di restare accessibile a tutti. Ci vogliono tutti e due, ci vuole una perché hai una platea più vasta e internazionale, come per la Guida dell’Espresso, la Michelin e quella del Gambero Rosso dove ogni cuoco si confronta. Poi ci sono le soddisfazioni intime e personali di un vicino di casa che viene a mangiare perché ha stima personale, è il complimento più bello perché si fida di te come persona. Le guide attestano come chef, il vicinato come persona".
(Aggiornamento - Pubblicato originariamente il 31 maggio 2021)