Giù le mani dalle denominazioni e dalle indicazioni geografiche. «Se in Europa vogliono giocare a togliere l’alcol ai vini da tavola, facciano pure. Ma un Brunello o un Barolo a sette gradi non lo vedranno mai. Le denominazioni italiane sono pronte a levare non solo gli scudi, ma anche i forconi di fronte a proposte che sembrano pensate apposta per mettere in difficoltà le nostre eccellenze».
Da buon toscano, il presidente del Consorzio del Brunello, Fabrizio Bindocci, è il più fumantino. All’indomani dalla polemica sulla proposta della Commissione europea di ammettere (con alcune limitazioni) la pratica della dealcolazione anche per le produzioni a denominazione d’origine, ha scritto ai colleghi dei principali Consorzi di tutela italiani per invitarli a esprimere tutti insieme il loro dissenso. «Occorre che l’Italia si faccia sentire - dice Bindocci -. Il vino di qualità è cultura, tradizione, naturalità: non si può stravolgere tutto questo pensando semplicemente alle logiche di mercato».

Anche Luca Giavi, direttore generale del Consorzio del Prosecco Doc, ha le idee chiare: «Da noi in Veneto, da secoli il vino con l’acqua si chiama Spritz». Ma al di là delle battute, riconosce che «il tema va affrontato con equilibrio e senza pregiudizi. La questione della dealcolazione è un work in progress di cui si parla da tempo a livello comunitario. Noi abbiamo sempre sostenuto che per questo tipo di prodotti debba essere abbandonata l’idea di utilizzare il termine vino. Come per il latte non animale o gli hamburger senza carne, la mistificazione di certi settori dell’agroalimentare porta ad aberrazioni e alla confusione». Esattamente il contrario di ciò che vuole fare la norma comunitaria sulle denominazioni d’origine, che invece tutela la buona fede del consumatore. «Per questo chiediamo di limitare la proposta sulla sottrazione di alcol ai vini da tavola e di puntare sulla chiarezza: noi non siamo affatto contrari a una bibita realizzata da vino dealcolato, perché può rappresentare un mercato interessante anche per la nostra filiera. La pratica è più che legittima, ma non chiamiamolo vino: piuttosto, succo d’uva fermentato».

È dello stesso parere anche Matteo Ascheri, presidente del Consorzio del Barolo e Barbaresco. «Le grandi questioni vanno analizzate senza gridare al lupo al lupo - dice -. In uno scenario mondiale in cui i trend salutisti sono sempre più forti, il vino con poco o senza alcol può avere una sua valenza. Ma l’idea va assolutamente limitata ai vini da tavola, lasciando stare il mondo delle denominazioni e delle indicazioni geografiche, che hanno una storia e una tradizione che non c’entrano nulla con queste pratiche».

Per Enrico Gobino, direttore marketing di Mondodelvino, grande corazzata inserita tra le prime venti cantine italiane e da poco acquisita dal fondo Clessidra insieme con Botter, «è giusto discutere e lanciare campanelli d’allarme, ma senza strumentalizzare. L’evoluzione del gusto dei consumatori e la richiesta di prodotti meno calorici sono sotto gli occhi di tutti, così come l’opportunità di aprirsi a mercati che non tollerano l’alcol, a partire dal mondo arabo. Noi, come tutte le aziende che seguono costantemente i trend di mercato, abbiamo iniziato a guardarci intorno. E la prima cosa che abbiamo notato è la difformità dell’impianto normativo a livello comunitario e dei singoli paesi: la Spagna, ad esempio, da tempo è sul mercato con il Winezero. La necessità di colmare il vuoto legislativo e armonizzare questo aspetto è reale e concreta, al di là di ogni questione qualitativa e di opportunità. L’Italia, primo produttore di vino al mondo, non può limitarsi a gridare o a stare in panchina, guardando gli altri che giocano».