BANGKOK. Non è un caso se 65 milioni di persone chiamano il Mekong "Fiume Madre". L’80% degli uomini, donne e bambini che vivono lungo o vicino alle sue rive dipendono dalle acque rese di un colore fangoso dai numerosi sedimenti essenziali alla sopravvivenza dei pesci, nonché alla fertilità delle terre arricchite del limo raccolto lungo i 4800 km del percorso.
IL 'FIUME MADRE' CHE SOFFRE. Dagli altopiani del Tibet il Mekong prende diversi nomi attraversando nell’ordine la Cina, Myanmar, Thailandia e Laos dove forma i loro confini nel celebre Triangolo d’Oro poi entra in Cambogia e infine sfocia in Vietnam a sud est di Saigon oggi Ho Chi Minh city. Ma col passare del tempo la quantità di acqua si è ridotta al punto che in certi periodi dell’anno il delta vietnamita rimane quasi asciutto e il mare penetra nel suo alveo rendendo salina la terra che sfama 18 milioni di contadini e contribuisce per il 22% al prodotto interno lordo del paese comunista. Anche il colore sta cambiando sempre più frequentemente, per assumere a tratti una tonalità verde-azzurro, bella a vedersi ma allarmante per quello che significa: mancanza di terra trasportata a valle e quindi meno nutrienti.
LA PIAGA DELLA SICCITA'. Pechino attribuisce la siccità, la più grave da un secolo a questa parte, ai cambiamenti climatici che pure hanno un ruolo importante nell’attuale crisi denunciata da numerosi rapporti scientifici. Ma lo Stimson Center di Washington ha recentemente analizzato e dimostrato il progressivo e nefasto ruolo che stanno avendo deviazioni e invasi creati da dighe e impianti costruiti lungo il corso principale e sugli affluenti fin dalle sorgenti himalayane, spogliate lungo la discesa a valle anche di alberi e vegetazione che ne proteggevano gli argini.
LE DIGHE E LA BIODIVERSITA' A RISCHIO. Sono ben undici le dighe costruite nella Cina sud-occidentale dove il fiume è noto come Lancang e scende verso le pianure attraverso spettacolari canyon e paesaggi idilliaci. Il fenomeno del prosciugamento è diventato sempre più evidente dal 2019, quando un preoccupante campanello d’allarme è suonato in Laos dopo il completamento della diga cinese di Jinghong. Il nuovo impianto ebbe conseguenze talmente immediate sull’approvvigionamento idrico dei villaggi oltre il confine che gli abitanti non ci misero molto a capirne il motivo. "Ufficialmente però Pechino li avvisò della sua apertura solo molte settimane dopo", ci spiega Tom Fawthrop, giornalista autore di due documentari sui problemi del bacino idrico e delle centinaia di specie di pesci che vi nuotano, alcuni a rischio di estinzione come il tipo di delfino che prende il nome proprio dal Mekong.
LO SFRUTTAMENTO DELLE ACQUE. "L’influenza economica e politica cinese sull’intero bacino – precisa Fawthrop - è tale che ben pochi dei paesi sudest-asiatici hanno il coraggio di lamentarsi ufficialmente, per timore di entrare in conflitto con il potente vicino”. Secondo lo stesso studio americano, la Cina rilascia il flusso secondo la convenienza dei suoi contadini e delle compagnie che gestiscono i numerosi impianti idroelettrici affacciati lungo il grande bacino. Non è escluso che possa trattarsi in parte di un allarme volutamente esagerato, visto che gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a mettere in cattiva luce il ruolo cinese in queste regioni geopoliticamente strategiche.
Ma Thitinan Pongsudhirak dell'Università Chulalongkorn di Bangkok conferma la tendenza all’appropriazione dell’acqua per l'irrigazione domestica e l'uso di energia da parte della Repubblica popolare, che aumenta le quantità rilasciate solo alla vigilia di eventi politici importanti come le riunioni dell’Asean, l’associazione dei paesi del Sud e Sud-est asiatico, spesso altrettanto impotente verso l’ingombrante partner "esterno". "È chiarissimo che Pechino sta usando le dighe come strumento di pressione politica", ha detto il docente, “nel senso che aumenta la quantità di acqua rilasciata quando le autorità vogliono migliorare le relazioni con i vicini”. Ma “la stagione secca – spiega - resta il periodo più difficile per i paesi a valle".
LA CINA SOTTO ACCUSA. Dal novembre scorso, secondo l’organo del partito Global Times, la Cina ha iniziato a condividere i dati di due stazioni idrologiche che calcolano i flussi a monte del Mekong per fornire "previsioni affidabili e servizi di allerta precoce" su inondazioni e siccità. Gli esperti però sono scettici e parlano apertamente di un vero e proprio "sequestro" delle acque, trattenute il più a lungo possibile per riempire invasi e reservoire con effetti devastanti sul fabbisogno di proteine animali dei paesi a valle, come conferma la stessa ong International Rivers network.
La guerra dell'acqua tra India e Cina
Il fenomeno della salinizzazione del grande delta in Vietnam, con le sue enormi distese di risaie, è l’inquietante effetto finale dei pesanti lavori a monte, ma in Cambogia sbarramenti e deviazioni stanno indebolendo a livelli allarmanti gli apporti stagionali di acqua che annualmente si riversano sul lago Tonle Sap e permettono a numerose specie di pesci di depositare le uova e moltiplicarsi sfamando oltre un milione e 200 mila abitanti. E’ qui che si riproduce oltre la metà del pesce consumato e commerciato nel paese, pari al 16% del prodotto interno lordo.
L'EMERGENZA AMBIENTALE. Secondo Phil Robertson di Human Rights Watch "le alluvioni nel lago duravano circa tre mesi, ma ora si fermano dopo sei settimane, e a questo ritmo l’impatto umanitario sarà enorme". E’ solo uno egli aspetti di un’emergenza che rischia di condizionare non solo l’ambiente ma anche le relazioni tra i paesi Asean (Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam) che nel lontano 1995 firmarono un accordo di sviluppo sostenibile per la protezione dell’ecosistema istituendo la Mekong River Commission alla quale partecipano come partner-ossevatori Cina e Myanmar.
A fare le spese dello sfruttamento del grande bacino fluviale sono gli stessi siti culturali e archeologici celebri nel mondo come la città laotiana di Luang Prabang alla confluenza con il Nam Khan, divenuta nello stesso anno patrimonio universale sotto l’egida dell’Unesco, fortemente preoccupata della sorte di questo incantevole insediamento buddhista con grotte, statue e templi di squisita fattura. "Il caso di Luang Prabang – sostiene Fawthrop - dimostra che non è solo la Cina a minacciare il Mekong, visto che le contraddizioni delle politiche di sfruttamento del territorio sono da attribuire paradossalmente alle stesse 'vittime' del predominio di Pechino".
In Laos, nell’anno di apertura della diga cinese di Jinghong, la compagnia thailandese CH. Karnchang mise in funzione a monte di Luang Prabang l'enorme centrale idroelettrica di Xayaburi. Ma la stessa compagnia, in accordo col governo di Vientiane, ne sta progettando un’altra a valle, fortemente osteggiata dagli ambientalisti thai e da numerose organizzazioni internazionali che temono l’allagamento dell’iconica città storica con le sue grotte visitate ogni anno da milioni di turisti assieme al borgo di squisita architettura francese.
Il piccolo paese comunista, con la sua economia fortemente dipendente dalla Cina e dalla vicina Thailandia alla quale vende gran parte dell’elettricità prodotta, ha in cantiere altre 5 dighe delle quali 4 sono già a vari stadi di costruzione, come Pakbeng, la stessa Luang Prabang, Paklay e Sanakham, quasi tutte in attesa dell’approvazione da parte della Mekong commission dove Bangkok potrebbe ritirare il suo supporto visto che l’energia già prodotta dai vecchi impianti è già sufficiente ai fabbisogni dei thai.
Come se le contraddizioni non fossero abbastanza, anche la Cambogia - così fortemente dipendente dal Mekong - ha costruito altre due dighe controverse sui tributari, aggiungendo ostacoli a ostacoli nello scorrimento verso il delta vietnamita e il mare cinese meridionale, anche se Phnom Penh ha imposto una moratoria di 10 anni a ogni impianto lungo il corso principale.
Sebbene esistano diverse responsabilità collettive per l’incuria verso il Fiume madre, sono pur sempre le grandi dighe cinesi a creare l’impatto più pesante sull’ecosistema del grande bacino, come la Nuozhadu dam completata nel 2012 in Yunnan, e la Xiaowan. Insieme possono immagazzinare fino a 40 miliardi di metri cubi d’acqua, senza contare quella di Dachaoshan già operante dal 2001 e le altre 8 già in funzione. La cascata di impianti nel percorso superiore del Mekong - secondo i calcoli dello Stimson Center - "hanno trattenuto molta più acqua rispetto ai 20 anni precedenti". Ma ne hanno anche rilasciata in eccesso, creando talvolta inondazioni e devastazioni inaudite.
Per questo, consapevoli della loro debolezza contrattuale verso chi è in grado di aprire e chiudere a piacimento i rubinetti, i quattro paesi affacciati sul tratto inferiore del Fiume Madre si stanno rivolgendo ora a Stati Uniti e altre nazioni per chiedere assistenza politica e tecnica. Così è nata nel settembre 2020 la Mekong-U.S. Partnership finanziata da Washington con 6 milioni di dollari per interventi tecnici, ma anche per creare accessi informatici ai dati tenuti celati dalla Cina. I satelliti americani – ad esempio - nel mese scorso hanno registrato un calo di 1 metro del livello del fiume nel distretto thailandese settentrionale di Chiang Saen, anche questo attribuito a una diga cinese.
"L’ovvio interesse geopolitico di Washington – assicura Fawthrop - non toglie nulla alla drammaticità di una situazione la cui responsabilità va però ben oltre quella di Pechino. La stessa Banca mondiale e l’Asian development bank considerano con troppa leggerezza gli investimenti sulle dighe come parte dei piani di sviluppo sostenibile".