Potrà sembrare irreale, ma tra i rimedi possibili per arginare la marea di plastica che soffoca il Pianeta e per contrastare i cambiamenti climatici dobbiamo iniziare a considerare anche le bucce delle patate e quelle delle arance. Frugare tra gli scarti e tirare fuori come da un cilindro la soluzione ad un problema non è più così raro, e sempre meno lo sarà in futuro, ora che il sistema produttivo europeo si è posto l’obiettivo dell’economia circolare, dove i rifiuti diventano nuove risorse. Questa è l’ambizione del progetto europeo Newpack: finanziato nell’ambito di Horizon 2020 dalla partnership pubblico privata Bio-Based Industries Joint Undertaking, intende ricavare, dagli scarti dell’industria agroalimentare, bioplastiche per imballaggi che siano biodegradabili, adatte al contatto con gli alimenti e competitive dal punto di vista economico. “Lo sforzo è stato proprio partire da sottoprodotti invece che da prodotti nobili, come il mais, e ottenere le stesse performance” spiega Giorgia Spigno, docente di Scienze e tecnologie alimentari all'Università cattolica del sacro cuore, uno dei partner italiani del progetto (insieme a Proplast, il consorzio per l’innovazione nella filiera della plastica).
La produzione mondiale di plastica, che assorbe il 6% di tutto il petrolio consumato ogni anno, è destinata per il 40% al packaging, dalle vaschette ai film di rivestimento ai flaconi. E oggi solo l’1% di tutta la plastica è di origine rinnovabile (bio-based). Col progetto Newpack l’Europa vuole contribuire ad andare ben oltre questo 1%. Il team dell'Università Cattolica parte dai sottoprodotti della lavorazione della barbabietola per produrre PLA (acido polilattico) e dalle bucce di patate per ottenere PHB (poliidrossibutirrato). Il PLA è una bioplastica molto versatile ma fragile e con scarse capacità di fare da barriera ai gas, caratteristica essenziale quando si parla di imballaggi che facciano durare i prodotti il più a lungo possibile. Mentre il PHB è costoso e difficile da lavorare. È per questo che nel progetto, chiarisce Spigno, “lavoriamo ad una miscela di PLA e PHB per sopperire alle criticità dell’uno con i vantaggi dell’altro”. Entrambi questi polimeri derivano da processi di fermentazione del tutto analoghi a quelli dell’uva quando si fa il vino. Nel caso del PLA, dei batteri si nutrono del melasso delle barbabietole e danno vita all’acido lattico da cui si ricava poi (per polimerizzazione) l’acido polilattico. Per il PHB sono invece dei lieviti che fanno tutto il lavoro per noi e, dalla digestione delle bucce di patate, producono direttamente poliidrossibutirrato. “Avremmo potuto dar loro da mangiare zuccheri o fonti primarie come il mais: sarebbe stato più facile, ma avremmo rischiato di andare a competere con la produzione di cibo per l’uomo e gli animali”.
Non soddisfatti di aver creato un film per imballaggi alimentari bio-based e biodegradabile, il team della professoressa Spigno ha voluto ottenere una pellicola di rivestimento ‘attiva’, che interagisse cioè con gli alimenti. E lo ha fatto inserendo nella miscela di bioplastiche estratti di foglie di olivo o di buccia d’arancia, entrambi contenenti sostanze antiossidanti (composti fenolici). Quando la pellicola entra a contatto con gli alimenti gli trasmette gli antiossidanti che permettono alla nostra insalata o al nostro prosciutto di durare più a lungo. “Stiamo ultimando la produzione dei materiali per i test che partiranno da febbraio”, conclude la professoressa Spigno: “Il progetto si concluderà ad agosto: se otterremo risultati in linea con gli obiettivi previsti la strada non dovrebbe essere lunga ed entro l’anno prossimo potremmo avere questi prodotti sul mercato”.