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Alessandro de Calò, l’editorialista della Gazzetta dello Sport nipote di Luttazzi

Lo zio burlone Lelio Luttazzi. Il lavoro da cronista a Il Piccolo E poi gli anni rosa della Gazzetta

Fiora Palazzini
5 minuti di lettura
Alessandro de Calò 

Nel recupero della mia triestinità semi-perduta, quando ho visto che c’era al San Marco un appuntamento per ricordare Lelio Luttazzi in occasione dei 100 anni dalla nascita, ci sono andata.

E lì ho scoperto che Alessandro de Calò, che conoscevo quando lavorava al “Piccolo” negli anni ’80, era un nipote dell’artista. Mai saputo. Ma non solo, nel suo intervento ha svelato anche un godibilissimo “segreto”.

Camillo? Il protagonista della famosa canzone “El can de Trieste” dell’indimenticabile Lelio Luttazzi si chiamava proprio così? Esisteva realmente, dunque il “fiol de un can”?

Lelio aveva regalato un cane a mio nonno materno, Emilio - che era anche il nonno di Donatella, la figlia di Lelio e di Magda, una delle sorelle di mia madre - quando è rimasto vedovo, perché gli facesse compagnia. Da parte di mio zio era stato un piccolo atto di amore.

E come era questo cagnolino? Tanto simpatico da dedicargli una canzone?

Camillo non era uno spinone come appare sulla copertina del 45 giri dell’epoca ma un bastardino bianco e nero. Era un bastardo nel senso più alto del termine: sveglio, intelligente, giocoso. Era diventato il re della casa, il grande appartamento in via Imbriani dove stavano i miei nonni, pieno di mobili antichi, di libri e meravigliose stufe di maiolica alte sino al soffitto. Penso che Camillo fosse davvero molto triestino e anche piuttosto mitteleuropeo.

Luttazzi ritornava a Trieste, anche dopo essere diventato una star della televisione dell’epoca?

Ritornava e frequentava la casa di mio nonno, portava anche degli amici. Del resto la casa del nonno - che era stato Commissario di bordo sulla Vulcania e sulla Saturnia - era un vero porto di mare. Un’altra sorella di mia madre aveva sposato un filosofo e scrittore francese, Jean Fallot, che era nel giro di Sartre e aveva tre figli miei coetanei. C’era di tutto e di tutti in quella casa, e questo era bello e stimolante.

Ha altri bei ricordi dello zio?

Il vero incontro, il più importante con Lelio era stato quando siamo andati a trovarlo a Roma, io e mio fratello Ruggero, in un periodo molto particolare per lui, poco dopo la sua disavventura giudiziaria. Eravamo stati una decina di giorni a casa sua in una specie di full immersion. Lo zio era stato appena lasciato dalla compagna di allora, che aveva portato via l’impianto stereo. Lelio di notte non riusciva a dormire: allora si metteva al piano a suonare, cantavamo, ci raccontava per filo e per segno tutta la biografia della sua vita. Io e mio fratello all’epoca giocavamo a calcio nelle giovanili della Triestina, e Lelio quando ci ha visto in azione nel giardino della sua villa fuori Roma, la vecchia “Casa Rossa”, era impazzito. Agli amici che venivano a trovarlo ci esibiva con orgoglio e diceva “questi xe i muli triestini” . E poi ricordo un’altra cosa divertente. C’era un cane anche lì e Lelio lo aveva chiamato Mona. Faceva apposta a chiedere alla governante “ma dove sarà il cane?”. Lei usciva in giardino e incominciava a urlare “Mona, Mona vieni qua…”. La governante poveretta non aveva cognizione del termine, e noi ci rotolavamo dalle risate! Come una scena da “Amici miei”.

Lelio Luttazzi è andato via da Trieste dopo la guerra. E con lui tanti altri della sua generazione…

Quando Lelio è partito - assieme a Teddy Reno - c’era stata una grande diaspora. Non era solo, faceva parte di una squadra, ognuno con la sua storia, il suo percorso. E ciascuno nel suo campo è diventato un’eccellenza.

Come mai?

Credo che dipenda dagli incroci e dalle contaminazioni che sono state la grande ricchezza della Mitteleuropa. Una bella triestinità cosmopolita. “La poetica delle differenze” come diceva Boris Podrecca, un altro importante figlio di queste terre. Nell’Italia del boom, soprattutto a Milano e in parte anche a Roma, i triestini avevano una marcia in più. Nel calcio Nereo Rocco, Cesare Maldini, Fabio Cudicini hanno segnato un’epoca. Rocco – che di cognome nasceva Roch ed era di origine viennese - è quello che ha sdoganato il dialetto triestino in Italia. Quando poi sono andato a Milano, colleghi insospettabili mi parlavano in triestino! Da Trieste era partito Cesare Rubini, un gigante nella storia del basket italiano. Nel pugilato, Nino Benvenuti è stato un mito. Altro grande personaggio Ottavio Missoni, catapultato da Zara a Trieste e da qui a Milano, dove ha saputo coniugare lo sport, la moda e l’arte di vivere bene. Tra i top, nella moda, c’erano anche Mila Schön e Renato Balestra. Nessuno, poi, può dimenticare Giorgio Strehler, el mulo de Barcola, un riferimento nel teatro europeo. Ernesto Nathan Rogers, triestino di padre inglese, è stato il primo teorico dell’architettura in Italia. Alla sua scuola è cresciuta una generazione di archistar. Direi che anche Lelio, a suo modo, è stato un maestro, anche se non voleva esser considerato tale. Lo è stato per sottrazione.

E qual è il suo rapporto con Trieste, visto che anche lei hai lasciato la città per andare a Milano? La sua famiglia è triestina da secoli, giusto?

Il mio rapporto con Trieste è un cordone ombelicale che non si è mai spezzato del tutto. Sia fisico, perché mi capita di tornare più o un po’ meno spesso, sia mentale perché Trieste è sempre nella mia testa, nel mio accento, nel lessico famigliare, nella mancanza di chi non c’è più come mio fratello che era ed è parte di me.

Una famiglia antica...

La mia famiglia è a Trieste dalla fine del 1400. Il capostipite, Tullio, uno dei discendenti dell’Imperatore Romano d’Oriente, passato per Napoli e poi per la Puglia, era salito infine a Trieste. Tullio è sepolto nella chiesa di San Silvestro, la più antica della città, che era la cappella di famiglia. Un antenato mio omonimo è sepolto nella basilica di San Giusto. Il Casato dei de Calò è una delle storiche famiglie patrizie, ha dato alla città giudici, magistrati, uomini di chiesa, alti militari. E dunque ho delle profonde radici. Anche se questa nobiltà è decaduta, come quasi tutte le nobiltà, rimane viva come narrazione familiare, come Dna. Con il tempo, anche se non ho mai dato molto peso alla cosa, torna a galla, te la ritrovi addosso.

La passione per il calcio è nata da ragazzino?

Giocavamo in piazza Carlo Alberto quasi tutti i giorni ed era un posto speciale. Per dire, là di fronte abitavano i parenti di Fabio Cudicini, numero uno della Roma e del Milan, uno dei portieri storici del calcio italiano, il “ragno nero”. Cudicini era un gigante da un metro e novanta, il giocatore più alto della serie A. Anche questo aspetto secondo me faceva parte della specificità di Trieste, il melting pot mitteleuropeo che ha prodotto molta eccellenza. Ogni tanto Cudicini veniva a vederci giocare. E una volta si era presentato anche il grande Gigi Riva. Da ragazzini sognavamo di diventare dei campioni, come loro. Poi siamo cresciuti facendo altre cose.

L’impatto con Milano com’è stato?

Mio padre ci andava spesso per lavoro, e qualche volta mi portava con lui. Quindi era una città che sentivo un po’ mia. Mi sono trasferito d’estate per lavorare in Gazzetta, un primo luglio, quasi 40 anni fa. C’era un caldo infernale, aveva una dimensione fisica, mi mancavano il mare e il vento. L’ impatto climatico è stato duro. Ma Milano all’epoca usciva dagli anni di piombo, la vita riprendeva colore, e quindi vivere là, da giovane giornalista, era come partecipare a una “Fiesta mobile” hemingwayana, ogni giorno c’erano sorprese e nuovi incontri. Tutto questo metteva in moto grande energia.

Com’è stato il lavoro alla Gazzetta dello Sport?

Ho iniziato a occuparmi soprattutto di calcio, che in quegli anni - dopo che l’Italia aveva vinto il Mondiale, nell’82 - stava diventando molto importante, non solo come sport ma anche sul piano economico, politico e del costume. Ho avuto la possibilità di seguire sia il calcio italiano che quello internazionale: migliaia di partite tra campionato italiano, Mondiali, Champions League, Europei, Olimpiadi. L’Italia, negli anni Novanta, era il top nel calcio a livello globale: lavorare in Gazzetta era come per un giornalista politico scrivere sul New York Times. Da inviato, ho iniziato dunque a girare il mondo ed è stata una lunga e magnifica opportunità, che mi ha aperto tante altre porte e segnato la vita.

E quali ricordi conserva degli anni al Piccolo?

È stato un periodo breve – quattro anni – ma di intensità straordinaria, un’avventura giornalistica e di formazione molto felice. Ho avuto la fortuna di incontrare un grande maestro come Paolo Berti, che era arrivato nei primi anni Ottanta con Luciano Ceschia, ed era stato corrispondente da Mosca, Pechino e Belgrado nello storico “Europeo” di Bocca e della Fallaci. Era severo, ci faceva riscrivere gli articoli, ma dava l’esempio e ci insegnava il mestiere. Sotto di lui c’era una squadra super: Franco Steinbach era capocronista, e il suo vice era Paolo Rumiz, che oggi trovo sia uno degli scrittori italiani più interessanti in assoluto per la profondità delle cose che racconta. Con Paolo Condò e Claudio Erné eravamo i cronisti d’assalto. Il nostro modello erano i giornalisti del Watergate, Woodward e Bernstein. Lavoravamo in una stanza, separata dal resto della redazione, che tutti chiamavano “Washington Post”. Da lì partivano le inchieste. Ci trovavamo anche di notte con le nostre fonti riservate per cercare di capire perché il banchiere Roberto Calvi, prima di essere trovato impiccato sotto un ponte di Londra, fosse passato per Trieste. Nel frattempo, prima della partenza per Milano, ero diventato il corrispondente di “Repubblica”. E adesso l’avventura continua, sono contento di scrivere ancora e di mettere la mia firma sulla Gazzetta.

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