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Check up alla Diga Vecchia, 150 anni ma non li dimostra

Presentato all’Autorità portuale il dossier con i risultati delle indagini subacquee coordinate da Trieste sommersa diving: «Qualche cedimento ma nessun pericolo»

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Ha quasi centocinquant’anni ma non li dimostra. Certo, qualche ruga, qualche cedimento qua e là si nota, ma la Diga Vecchia dell’antico scalo è ancora in buono stato e compie egregiamente il suo dovere.

Sono questi, in buona sostanza, i risultati dall’“Operazione Diga Vecchia” presentati alla Capitaneria di Porto e all’Autorità portuale dopo l’analisi dei dati raccolti in tre giornate di lavoro, tra il settembre e l’ottobre scorsi, dai subacquei delle società sub triestine (Circolo Ghisleri, Circolo Sommozzatori Trieste, Murena Sporting Diving Club, Scuba Tortuga e Sub Sea Club Trieste), coordinati dagli ideatori del progetto, la Guardia Costiera Ausiliaria e l’associazione Trieste Sommersa Diving. L’idea era di andare a dare un’occhiata sott’acqua al di qua e al di là della Diga Vecchia, per vedere in che stato è l’opera di sbarramento, costruita nel 1865, per tutti i 1116 metri della sua lunghezza. Un “check up” completo, mai fatto prima, e utilissimo per capire se e dove intervenire. «La prospezione della Diga del Porto Vecchio - spiega Roberto Bolelli della Trieste sommersa Diving - ha portato alla luce qualche acciacco dovuto al tempo e alla continua azione del mare, ma nel complesso il manufatto gode ancora di buona salute, tale da non causare alcun problema alla navigazione». Gli “acciacchi”, come illustrato nel dossier, riguardano in alcuni punti crepe o fenditure da erosione e lo scivolamento verso il fondo di alcuni massi del basamento inclinato. Nulla però che possa compromettere, al momento, la piena funzionalità della diga.

L’analisi realizzata da una cinquantina di subacquei, è stato osservato durante la presentazione del dossier con i risultati dell’operazione, «può inoltre essere considerato un mirabile esempio di sinergie nella subacquea triestina che ha portato alla scoperta di un habitat ricco e variegato». Circa quaranta ore di filmati, un migliaio di scatti fotografici, tre unità navali in mare, il pontone Ursus come base operativa, una decina di rilevatori a terra hanno permesso la stesura del documento redatto da Edoardo Nattelli, in collaborazione e con l’apporto di esperti e appassionati di storia del mare come Claudio Pristavec, il capitano Vladimiro de Noto e l’architetto Enrico Torlo.

«L’ambiente trovato sott’acqua - continua Bolelli - e precluso al grande pubblico dalle esigenze portuali, ha generato grande interesse dal punto di vista faunistico e con grande sorpresa è stato scoperto ricco di vita». Ispezioni eseguite sui relitti conosciuti, affondati in tempi passati a ridosso della diga, hanno testimoniato come questi siano ottime fonti di vita e di ripopolamento ittico. Tesi, del resto, già esposta dalla Trieste Sommersa Diving durante la scorsa edizione di Trieste Next. L’esplorazione e i rilievi effettuati su questi relitti, in particolare, è stata inoltre l’occasione per ripercorrere la storia delle attrezzature portuali del Porto Vecchio, che, costruito per scopi emporiali legati ai traffici ed ai commerci dell’ impero austroungarico, doveva dare sicuro riparo alle navi che operavano in carico e scarico merci verso i vasti magazzini (servizio del resto oggi ancora in parte attivo). I relitti della nave Mojolner, la nave-ristorante dismessa e affondata durante una libecciata nel 1984, i resti degli antichi rimorchiatori “Pirano” e “Pola”, anche questi affondati mentre erano all’ormeggio, nonché della motobarca “Sirena” e della maona “Betta” costituiscono un piccolo parco sommerso storico/naturale, tanto che il dossier presentato alle autorità termina proprio con l’auspicio che la diga possa diventare «un sito di interesse per immersioni fotografiche, sperimentali, di istruzione o per iniziative di altro genere». Oltre a contribuire al monitoraggio costante della diga, che per quanto in buona salute ha pur sempre un secolo e mezzo di vita.

p_spirito

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