Delusione per Joyce tradotto da Celati
Una vera doccia fredda dagli studiosi di Ulisse per la nuova traduzione dello scrittore italiano

«Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on which a mirror and a razor lay crossed» recita il famoso incipit dell'«Ulisse», il romanzo che James Joyce scrisse tra il 1914 e il 1921 a Trieste, Zurigo e Parigi. Nella traduzione di Giulio de Angelis del 1960 si leggeva: «Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale portando un bacile di schiuma» mentre in quella più recente di Enrico Terrinoni abbiamo: «Statuario, il pingue Buck Mulligan spuntò in cima alle scale, con in mano una ciotola di schiuma». Nella sua nuova versione, Gianni Celati propone: «Imponente e grassoccio, Buck Mulligan stava sbucando dal caposcala con in mano una tazza piena di schiuma)».
Grassoccio? Sbucando? Caposcala? Una tazza piena? Brutti segnali che fanno temere una partenza col piede sbagliato... Grassoccio: (oltre a essere cacofonico) distrae dall'allusione shakespeariana al pingue Falstaff. Sbucando: l'uso del gerundio è opinabile, Joyce non usa “coming”, ma il passato “came”. Caposcala: si pensa subito al condominio, ma qui si tratta dell'ascesa dei gradini di un immaginario altare rappresentato dalla piazzola della Torre Martello dove Mulligan inscena un'irriverente parodia della messa. Quella che ha in mano non è una tazza piena, ma una “bowl”, una ciotola con l'occorrente per farsi la barba, ma anche calice e più avanti simbolo di malattia e morte.
Inoltrandosi nella lettura, ci si imbatte poi in svariate incomprensioni del testo, in alcuni casi non è chiaro al traduttore il soggetto della frase, sono errate talune citazioni, a volte non è corretta la toponomastica, e l'utilizzo di sinonimi, termini arcaici o desueti è a dir poco ossessivo.
È un miracolo che, nonostante Celati abbia fatto di tutto per rendere il testo di Joyce molto più oscuro di quanto non sia, alla fine l'autore dell'Ulisse esca comunque vincitore dallo scontro.
Delusione tra i joyciani, come Enrico Terrinoni che aveva dichiarato di aspettarsi da parte di un grande scrittore come Gianni Celati «che con la sua arte avrebbe fornito scelte creative e illuminanti per i lettori di Joyce». Anche a John McCourt, autore di “Gli anni di Bloom”, questa traduzione dell'Ulisse appare un'occasione mancata: «Abbiamo aspettato con grande entusiasmo l'uscita di questo lavoro, - ha dichiarato McCourt - nella speranza che un uomo di cultura del calibro di Celati avrebbe trovato il modo di trasmettere il complesso, sinfonico romanzo di Joyce ad un nuovo pubblico italiano. Invece, questa traduzione nasce già vecchia, già datata e rende più difficile e a volte incomprensibile il testo originale. Mentre la lingua di Joyce risulta ancor oggi fresca, vivace, divertente, mai banale, scritta in un inglese corrente, contemporaneo, l'italiano toscaneggiante di Celati appare invece da subito falso e stonato».
Certo, in alcuni episodi del romanzo Joyce si fa gioco degli stili letterari del passato, e in alcune pagine utilizza un linguaggio particolare, ma è un espediente occasionale per ottenere una più articolata sonorità del testo. Il “musicale” birignao dantesco della traduzione di Celati rende monocorde quello che è invece un testo polifonico. La scrittura dell'Ulisse fu molto influenzata dalla permanenza di Joyce nella cosmopolita e plurilinguistica Trieste d'inizio '900 e - dovendo proprio scegliere un bacino linguistico di riferimento - si doveva forse guardare più a quella sua “bella Trieste” che non alla Toscana dell'amico Francini Bruni (come ha dimostrato l'illuminate performance all'Orto Lapidario curata da Laura Pelaschiar e Maurizio Zacchigna in occasione del Bloomsday 2012).
«Mi sembra un passo indietro rispetto alla storica traduzione di de Angelis, che, pur non disponeva delle conoscenze che abbiamo oggi sull'opera di Joyce. Credo che Celati abbia fatto un grande errore – commenta John McCourt – a non utilizzare il materiale esplicativo uscito in questi anni. In un intervista al “Corriere della Sera” ha detto d'aver comprato una ventina di dizionari; avrebbe fatto meglio a comprare qualche guida annotata alla lettura in più, perché tradurre Joyce è soprattutto un paziente e umile lavoro di ricerca».
Qui, ad aver bisogno di vocabolari e dizionari di sinonimi è invece il lettore, che deve districarsi tra termini come: baito, sbiellarsi, sbiluciando, fruscoli, mòcchela, ambio, popone, mabrucca, gargagna, piola, far flanella, sguillar, entragne, balosa, baldente, polleggiare etc. La traduzione di Celati, priva di note esplicative, pone anche problemi di riconoscimento delle così dette “parole stampella” che hanno spesso più significati, e di cui Joyce ha disseminato il testo. Individuarle è importante per la comprensione del romanzo. Queste parole chiave, inopinatamente mascherate dai sinonimi di Celati, rischiano di diventare irriconoscibili, lasciando il lettore senza di punti di riferimento.
«Anziché tentare di rendersi invisibile, cosa che dovrebbe fare ogni traduttore, Celati si mette in mostra dovunque nel testo, - lamenta McCourt - ad esempio, quando Joyce cita autori famosi, come Yeats o d'Aquino, il traduttore dovrebbe ricorrere a traduzioni canoniche e, se la citazione fosse ripetuta più volte (come la poesia Who goes with Fergus di Yeats), dovrebbe usare sempre la stessa versione. Invece Celati cambia versione come cambia modo di tradurre varie parole e frasi ricorrenti. Nell'Ulisse il significato si trova proprio in questi echi, un aspetto importante che, mi pare, non ha riscontro nella nuova traduzione. A volte Celati sembra non aver capito l'originale (e ogni tanto può accadere), ma è grave che non abbia capito, nel profondo, Joyce. Quando afferma “Tutto il libro è fatto di parole per ridere, non ce n'è una seria”, dimostra di non aver colto che nell'Ulisse la comicità (che la traduzione di Terrinoni coglie bene) fa parte di un intento di Joyce molto più serio e ambizioso che, a prima vista, sembra essere sfuggito al traduttore».
L'Ulisse, scrive Celati nella sua prefazione, è «un lungo chiacchierare con se stessi» in compagnia del “canto continuo” dell'uomo qualunque Leopold Bloom. Peccato che non ci lasci condividere un commovente momento d'abbandono di questo anti-eroe quando, all'inizio dell'episodio “Sirene”, confessa di sentirsi triste e solo. Perché nella versione di Celati a sentirsi triste e sola è la Rosa di Castiglia, protagonista di un'opera lirica di M. W. Balfe.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
I commenti dei lettori