Addio ”Principe” Rubini, leggenda di due sport
Triestino, aveva 87 anni. È stato inserito nella Hall of Fame mondiale del basket e della pallanuoto. Si è spento in seguito alle complicazioni di una polmonite
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TRIESTE. Nello sport, spesso, i superlativi si sprecano. Cesare Rubini è stato uno dei pochi campioni a meritarseli tutti. È morto l’altra notte a 87 anni per i postumi di una broncopolmonite ma era malato da tempo. La vecchiaia e la malattia sono stati gli unici nemici che potevano vincerlo. La retorica vuole che quando se ne vanno personaggi simili, si scriva che adesso sono entrati nella leggenda. Nel caso di Cesare Rubini sarebbe sbagliato. Con il ”Principe”, come era universalmente conosciuto, il tempo è stato galantuomo e gli ha permesso di vedersi tributare il massimo onore cui un campione del basket e della pallanuoto potesse aspirare: l’inserimento nella Hall of Fame mondiale di entrambe le discipline, un posto tra i grandissimi di sempre.
Rubini era nato a Trieste il 2 novembre del 1923, da una famiglia proveniente da Spalato. Lo battezzarono Cesare Bruto Benito. Il padre Mirko era comandante di macchina sulle navi, la madre Maria era di origine montenegrina. Inizialmente i Rubini vivevano in Cittavecchia e dopo qualche anno si trasferirono a Roiano. Cesare ci mise poco a capire che lo sport gli avrebbe riservato più soddisfazioni degli studi. Frequentò il Nautico, il Carli e infine il liceo scientifico Oberdan.
Più semplice la scelta degli sport: pallacanestro e pallanuoto. Il calcio no, troppo fango e cartellini da firmare. Rubini voleva sentirsi libero. Nel ’41 esordì nella Ginnastica Triestina scudettata ma la guerra era dietro l’angolo. Lontano dall’ideologia fascista, per evitare mesi di naia decise di arruolarsi in Marina. Dopo la caduta del fascismo, si trovò bloccato a Pola insieme ad altri soldati. Con un amico riuscì a scappare e a rientrare avventurosamente a Trieste. «Finita la guerra si riprese con vigore – avrebbe scritto anni dopo nella sua autobiografia – mi sentivo sempre in forma, non avevo ancora 22 anni, i Quaranta giorni di Tito avevano svuotato la mia simpatia per i comunisti, però rimasi sempre di sinistra».
Iscritto all’Università, divenne capitano della Nazionale. Nel 1945 l’incontro con Adolfo Bogoncelli, l’imprenditore che voleva legare lo sport milanese al richiamo di Trieste italiana. L’esperienza della Triestina di Milano durò un anno appena ma sulle sue ceneri venne consolidata l’Olimpia. Rubini era ancora giovanissimo ma già pronto a assumersi il doppio ruolo di giocatore-allenatore nel basket e, subito dopo, nella pallanuoto. I due amori non potevano venir trascurati. Difficile dire per chi battesse più il cuore, anche se lo stesso Rubini avrebbe riconosciuto: «Come giocatore ero molto più forte nella pallanuoto».
Nel ’46 con l’Italia del basket vinse l’argento agli Europei, un anno dopo con quella della pallanuoto salì sul trono d’Europa. Le Olimpiadi di Londra ’48 lo misero di fronte al bivio. Quale Nazionale? Scelse saggiamente il team al quale sentiva di poter essere più utile. Il Settebello. E Rubini con quello squadrone salì sul gradino più alto del podio. Era in compagnia di altri triestini come Alfredo Toribolo (infortunato, disputò solo un incontro di quell’edizione dei Giochi) e Aldo Ghira. Quattro anni dopo centrò il bronzo a Helsinki. I picchi di una carriera che in vasca lo ha visto conquistare sei scudetti e un bronzo europeo.
In campo cestistico un’altra impressionante catena di successi. Cinque scudetti da giocatore-allenatore, imponendo una personalità non comune. Quella che lo portò a affrontare i tifosi avversari che per innervosirlo gli gridavano s’ciavo. «In quei momenti mi veniva in mente mia madre che diceva: siamo italiani due volte, più degli altri che sono nati qua. Siamo italiani due volte perché dopo l’altra guerra abbiamo scelto noi di essere italiani, di lasciare la Dalmazia. E di questo siamo orgogliosi».
Da allenatore, Rubini vinse nove scudetti creando il mito della Simmenthal Milano. Un innovatore sia nel gioco che nel costume. Furono lui e Bogoncelli a ideare le leggendarie scarpette rosse, le prime tute in raso.
Fu Rubini a avere l’intuizione di ingaggiare per la Coppa Campioni un giovanottone statunitense che studiava a Oxford. Si chiamava Bill Bradley, è diventato un grandissimo del basket Usa e un importante uomo politico. L’Olimpia con Rubini fu la prima società italiana regina d’Europa nel 1966. Arrivarono anche due Coppe delle Coppe.
Lasciata la panchina, Rubini non perse il gusto della vittoria. Era lui il dirigente responsabile della Nazionale che vinse la medaglie d’oro agli Europei di Nantes nel 1993.
Gli ingressi in due distinte Hall of Fame (l’Arca della Gloria) sono stati un tributo dovuto.
Ora Cesare Rubini ne meriterebbe dalla sua Trieste un altro. Sarebbe bello se decidessero di dedicargli il Palazzone di via Flavia.
RIPRODUZIONE RISERVATA
Rubini era nato a Trieste il 2 novembre del 1923, da una famiglia proveniente da Spalato. Lo battezzarono Cesare Bruto Benito. Il padre Mirko era comandante di macchina sulle navi, la madre Maria era di origine montenegrina. Inizialmente i Rubini vivevano in Cittavecchia e dopo qualche anno si trasferirono a Roiano. Cesare ci mise poco a capire che lo sport gli avrebbe riservato più soddisfazioni degli studi. Frequentò il Nautico, il Carli e infine il liceo scientifico Oberdan.
Più semplice la scelta degli sport: pallacanestro e pallanuoto. Il calcio no, troppo fango e cartellini da firmare. Rubini voleva sentirsi libero. Nel ’41 esordì nella Ginnastica Triestina scudettata ma la guerra era dietro l’angolo. Lontano dall’ideologia fascista, per evitare mesi di naia decise di arruolarsi in Marina. Dopo la caduta del fascismo, si trovò bloccato a Pola insieme ad altri soldati. Con un amico riuscì a scappare e a rientrare avventurosamente a Trieste. «Finita la guerra si riprese con vigore – avrebbe scritto anni dopo nella sua autobiografia – mi sentivo sempre in forma, non avevo ancora 22 anni, i Quaranta giorni di Tito avevano svuotato la mia simpatia per i comunisti, però rimasi sempre di sinistra».
Iscritto all’Università, divenne capitano della Nazionale. Nel 1945 l’incontro con Adolfo Bogoncelli, l’imprenditore che voleva legare lo sport milanese al richiamo di Trieste italiana. L’esperienza della Triestina di Milano durò un anno appena ma sulle sue ceneri venne consolidata l’Olimpia. Rubini era ancora giovanissimo ma già pronto a assumersi il doppio ruolo di giocatore-allenatore nel basket e, subito dopo, nella pallanuoto. I due amori non potevano venir trascurati. Difficile dire per chi battesse più il cuore, anche se lo stesso Rubini avrebbe riconosciuto: «Come giocatore ero molto più forte nella pallanuoto».
Nel ’46 con l’Italia del basket vinse l’argento agli Europei, un anno dopo con quella della pallanuoto salì sul trono d’Europa. Le Olimpiadi di Londra ’48 lo misero di fronte al bivio. Quale Nazionale? Scelse saggiamente il team al quale sentiva di poter essere più utile. Il Settebello. E Rubini con quello squadrone salì sul gradino più alto del podio. Era in compagnia di altri triestini come Alfredo Toribolo (infortunato, disputò solo un incontro di quell’edizione dei Giochi) e Aldo Ghira. Quattro anni dopo centrò il bronzo a Helsinki. I picchi di una carriera che in vasca lo ha visto conquistare sei scudetti e un bronzo europeo.
In campo cestistico un’altra impressionante catena di successi. Cinque scudetti da giocatore-allenatore, imponendo una personalità non comune. Quella che lo portò a affrontare i tifosi avversari che per innervosirlo gli gridavano s’ciavo. «In quei momenti mi veniva in mente mia madre che diceva: siamo italiani due volte, più degli altri che sono nati qua. Siamo italiani due volte perché dopo l’altra guerra abbiamo scelto noi di essere italiani, di lasciare la Dalmazia. E di questo siamo orgogliosi».
Da allenatore, Rubini vinse nove scudetti creando il mito della Simmenthal Milano. Un innovatore sia nel gioco che nel costume. Furono lui e Bogoncelli a ideare le leggendarie scarpette rosse, le prime tute in raso.
Fu Rubini a avere l’intuizione di ingaggiare per la Coppa Campioni un giovanottone statunitense che studiava a Oxford. Si chiamava Bill Bradley, è diventato un grandissimo del basket Usa e un importante uomo politico. L’Olimpia con Rubini fu la prima società italiana regina d’Europa nel 1966. Arrivarono anche due Coppe delle Coppe.
Lasciata la panchina, Rubini non perse il gusto della vittoria. Era lui il dirigente responsabile della Nazionale che vinse la medaglie d’oro agli Europei di Nantes nel 1993.
Gli ingressi in due distinte Hall of Fame (l’Arca della Gloria) sono stati un tributo dovuto.
Ora Cesare Rubini ne meriterebbe dalla sua Trieste un altro. Sarebbe bello se decidessero di dedicargli il Palazzone di via Flavia.
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