È inevitabile chiedersi cosa avrebbero potuto dare, alla letteratura, scrittori già così fertili, soprattutto talentati. Non ci sarà risposta. Entrambi, questo è certo, erano alimentati da una forte passione. La passione delle cose grandi, delle cose che non hanno mezze misure, come il Carso. O la guerra. Pensatori, ma artisti, in qualche misura artefici di un percorso opposto. Kosovel era più attratto da Trieste rispetto a LubIana, come scrive Michele Obit nella bella introduzione. Un tragitto contrario a quello di Slataper, triestino di nascita, ma richiamato da quel Carso che è «luogo di incontro tra la civiltà italiana e il mondo slavo», sottolinea Anna Storti nella premessa. Salvo poi cercare un adeguamento al canone nazionale, a Firenze, per poi ritornare a Trieste, una patria strana, certo, la cui assenza lo faceva stare male. E fu lui, in fondo, Scipio Slataper, a dare paternità all’idea di triestinità.
Oggi certo la triestinità è stata promossa dall’industria editoriale, quasi a garanzia di un successo commerciale. Ma la triestinità vera non ha niente a che fare con chi spende la città per una scenografia alla moda. Pensiamo a Svevo e a Saba. È a partire da loro – cui seguiranno Slataper, Giotti, i fratelli Stuparich e altri – che si inizia a definire il canone triestino. E poi c’è un dramma a Trieste – scriveva Slataper – quelle sue due anime che non è possibile sopprimere, pena la morte della città. Molto si è scritto su queste due anime, da Slataper a Magris, passando attraverso Bazlen. Ma è grazie a una presa di distanza che il «tipo triestino», l’artista triestino si renderà conto che la sua scrittura non si sostiene sul rifiuto delle contraddizioni, quanto piuttosto sulla loro assimilazione. L’arte nasce sempre, in fondo, da un forte contrasto. E contrastata è l’arte di Slataper e Kosovel, un’arte fatta di Carso e luci della città, dura pietra e liquidità marina, cultura italiana, tedesca e slovena. Sarà lo stesso Slataper a incarnare la contraddizione con la sua stessa vita. E Kosovel con la pratica di quella poesia che non solo teorizzò. Ma Slataper, lui che provocò più di altri l’italiana Trieste negandole “tradizioni di cultura”, lui pur così consapevole della necessaria coesistenza delle due anime della città, non esitò ad arruolarsi nel Regio esercito italiano e morì in azione sul Monte Podgora nel 1916. Ed è vero che Kosovel ha pennellato con tratti elegiaci, di impressionante sensibilità, lo spazio geografico ristretto in cui viveva, ma è altrettanto vero che è nel presagio della fine che quella natura si fa assoluta. Di più, come fa notare Obit, «è poeta capace di raccontare, un secolo fa, l’Europa priva di identità di oggi». Lui, nato a Tomaj, ma attratto inesorabilmente dalla cultura triestina. Lui che di quella cultura ha vissuto (anche) la tragedia, storica e politica, gli incendi del Narodni Dom e quello del quotidiano sloveno Edinost. È difficile individuare degli autori che del particolare, di un punto vano nel mondo com’è Trieste, abbiano saputo restituire un universale. Per cui rileggere Kosovel e Slataper non è affatto retrò, come non lo è mai con la bellezza ed è difficile leggere versi più adeguati per descrivere una città che in fondo è cambiata, ma non completamente. Perché “Il cuore-Trieste è malato./Perciò Trieste è bella./La pena fiorisce nella bellezza”. E nonostante la più civile convivenza, l’attenuazione dei contrasti, l’assalto del turismo, l’affievolirsi di certo campanilismo e tutta quella mitologia del piacere, che certo qui non manca, permane ancora una sorta di caduta in quella ambiguità dolorosa che è la sua essenza. Ma come diceva Rilke, forse, la caduta è felicità.
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